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EVVIVA LA «ZAGAGLIA BARBARA»


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Evviva la «zagaglia barbara»
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Evviva la «zagaglia barbara»

Come previsto, malgrado il cordone sanitario tirato dal governo portoghese, l’Angola mostra di non potersi difendere dall’«infezione» della rivolta negra che, se anche non esistessero sul luogo ragioni sufficienti per alimentarla, filtrerebbe in ogni caso attraverso le frontiere del Congo. Mentre nel 1959 si tacque delle violente sommosse nella Guinea portoghese, e nel 1960 di quelle nella stessa Angola, ora la stampa europea passa all’offensiva denunziando gli «eccidi» perpetrati da negri delle colonie portoghesi a danno dei coloni bianchi. È probabile che, passata almeno per il momento la grande paura congolese, si batterà con ardore il tam-tam sulle «atrocità» delle popolazioni di colore anche nel felice possedimento di Lisbona, e si griderà allo scandalo.

Non è atroce, per la stampa benpensante, lo sfruttamento a cui notoriamente sono sottoposti i negri nella colonia africana del sud-ovest: è atroce che negri vi si ribellino!

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Uno scrittore americano tutt’altro che rivoluzionario e nemmeno radicale come Stewart G. Easton può scrivere nel suo «Twilight of European Colonialism» (1960):
«Sembra evidente che la tradizione del traffico degli schiavi abbia finito per determinare certe attitudini portoghesi verso gli indigeni in Africa, che persistono malgrado i cambiamenti avvenuti nel modo di comportarsi del resto del mondo»;
per esempio, se un negro non accetta «volontariamente» di lavorare presso un colono bianco delle grandi piantagioni per almeno un semestre all’anno (quanto al «volontariamente», basti ricordare che, se un negro non lavora a salario fuori del suo piccolo lotto di terra, non potrà mai pagare le imposte sulla capanna e sul focolare domestico), l’amministrazione coloniale può costringerlo di autorità a farlo: che i contratti «volontari» per sei mesi implicano tutta una serie di clausole disciplinari, elencate nel passaporto interno che ogni uomo «di colore» deve avere con sé, la cui violazione autorizza il padrone a chiedere alla polizia di «punire» il colpevole con misure che vanno dalla pena corporale (consistente, scrive l’Easton), nel
«battere sulla mano con uno strumento noto come la palmatoria, una specie di ping-pong perforato che produce dolorose vesciche»
al lavoro correzionale e alla deportazione nelle piantagioni di cacao di Sao Tomé o di Principe; che, non essendo sufficienti le imposte a
«educare l’africano ad assolvere i suoi obblighi verso la società»,
il governo può – a parte il lavoro obbligatorio semestrale su una tenuta bianca -
«costringerlo a lavorare per la costruzione di strade ed altri compiti socialmente utili e, in genere.… per l’esecuzione di progetti di cui egli beneficerà, sebbene non gli sia permesso di dire la sua parola circa la possibilità che questo lavoro benefici veramente lui o soltanto le imprese private europee che si servono delle facilitazioni così fornite loro»,
tanto che,
«notoriamente, nell’Angola come nel Mozambico, qualunque impresa abbia bisogno di una forza-lavoro di una certa entità può ottenerla in qualunque momento attraverso gli agenti di reclutamento governativi».

Un esempio (citiamo sempre l’Easton, riservandoci di fornire dati più completi e meno blandi in seguito):
«Nel Mozambico settentrionale… si è sviluppato un sistema che può solo definirsi servitù. In quest’area l’indigeno è costretto a coltivare cotone con perdite rovinose per lui, giacché gli si fornisce il seme e lo si obbliga a coltivare il cotone su un pezzo di terra che prima dava di che vivere a lui e alla sua famiglia. Infatti, di regola, non gli si concede un pezzo supplementare di terra e, in ogni caso, egli e la sua famiglia non sono in grado di coltivare il cotone richiesto e riservarsi poi il tempo sufficiente per i prodotti necessari al proprio sostentamento… I concessionari che forniscono il seme non erogano salari; tutto quello che possono perdere è il seme, che vale poco, e, senza correre nessun rischio, possono rivendere il cotone (da loro acquistato a prezzo vile presso i coltivatori indigeni) a manifatturieri tessili portoghesi».

Non basta: oltre ad essere obbligati ad assumere impiego come manovali in aziende private per sei mesi e pubbliche o protette dalle autorità pubbliche in qualunque periodo, i negri delle colonie portoghesi possono essere «forniti» alle vicine miniere del Sud-Africa in contingenti fissi e,
«se non si offrono volontariamente per un lavoro a contratto, come è loro obbligo cristiano, è manifestamente doveroso per le autorità portoghesi provvedere a che lo facciano».
Quest’ultima forma di lavoro «comandato» è particolarmente vantaggioso (spiega l’Easton) per la potenza coloniale: infatti, il contratto col Sud-Africa prevede che i negri dell’Angola o del Mozambico vengano forniti come «manodopera docile e laboriosa» in cambio dell’impegno della potenza estera di esportare una quota fissa delle loro merci attraverso il porto di Lorenzo Marques o (se si tratta di inviarli nelle miniere della Rhodesia) attraverso quello di Beira; inoltre, per ogni lavoratore reclutato il governo sudafricano o rhodesiano paga alla colonia portoghese una certa somma di ingaggio, e infine, per agevolare lo «scambio» di carne umana, è disposto a costruire o finanziare tronchi stradali e ferroviari di cui il Portogallo potrà servirsi sia per i suoi traffici mercantili, sia per i suoi compiti di «paterna» tutela poliziesca della plebaglia negra che il buon Dio gli ha affidato perché la educhi, civilizzi e cristianizzi. Inutile dire che, anche qui, gli africani devono accettare qualunque salario gli si offra, e lo accettano «volontariamente» perché è sempre un salario superiore a quello che otterrebbero nell’Angola o nel Mozambico.

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Tutto questo (e diamo solo alcuni fra i mille particolari ignobili della ignobile, ma cristianissima, attività colonizzatrice portoghese) non è atroce; oh, dio guardi! Ma è atroce che, un bel giorno, i negri si rivoltino e ci scappi il solito cadavere bianco. Allora si grida all’orrore, alla selvaggia brutalità indigena, alla civiltà occidentale minacciata, alla verginità di candide fanciulle violata, ai sacrifici dei coloni distrutti, alla «zagaglia barbara» e via discorrendo. È vero che ogni tanto un vescovo (come quello di Beira) è costretto a prendere la parola per dichiarare che sistemi come quelli in uso nelle felici colonie del Portogallo «solo difficilmente possono giustificarsi alla luce della sociologia cristiana», che il sistema del lavoro forzato interno ed estero distrugge quei vincoli familiari ai quali i portoghesi pretendono di «educare» o «rieducare» gli indigeni: ma sono parole fatte apposta per attenuare le punte estreme del contrasto, parole da «riformatori illuminati» ansiosi di mutare la forma per mantenere la sostanza. E la realtà rimane, questa sì, atroce.

Ma è una realtà «di colore»: tutto sommato.… giustificabile. E guai a ribellarvisi!

Comunque, anche se i negri «portoghesi» non si muovessero di propria iniziativa, è inevitabile che sentano la pressione dei ribelli sul confine del Congo, e ci auguriamo che la stessa «esportazione della rivolta», dilagando in Rhodesia e nell’Africa del Sud, butti infine all’aria il sanguinario regno degli aguzzini dell’apartheid, e d’altri non diversi insetti. Sarà la migliore accoglienza al reduce Verwoerd.


Source: «Il Programma Comunista», 24 marzo 1961, Anno X, N.6

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