LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


IMPERIALISMO «VECCHIO» E «NUOVO»


Content:

Imperialismo «vecchio» e «nuovo»
Ieri
Oggi
Source


Sul filo del tempo

Imperialismo «vecchio» e «nuovo»

Ieri

Carattere essenziale dell’opportunismo è la pretesa di riconoscere ad ogni svolto che sono apparse forme nuove e inattese del capitalismo, per dedurne che tutto va mutato sia nelle valutazioni proprie della dottrina comunista, che nei metodi di azione del proletariato.

Se Marx, Engels, Lenin avessero «saputo» che le cose dovevano prendere una tal piega, poniamo quella del «nuovo» trilionario imperialismo alla Truman, indubbiamente – l’opportunismo dice – avrebbero essi in tempo sostituita la lotta di classe con la politica nazionale e l’emulazione internazionale, la dittatura proletaria con la democrazia popolare, la distruzione dei ceti intermedi con la difesa e l’alleanza colla piccola proprietà, il piccolo commercio, la piccola industria e il capitalismo «patriottico» di Mao-Tse.

Così?…

Occorre rilevare come in Inghilterra la tendenza dell’imperialismo a scindere la classe lavoratrice, a rafforzare in essa l’opportunismo, e quindi a determinare per qualche tempo il ristagno del movimento operaio, si sia manifestata assai prima della fine del XIX e degli inizi del XX secolo. Ivi infatti le due caratteristiche più importanti dell’imperialismo, cioè un grande possesso coloniale e una posizione di monopolio del mercato mondiale, apparvero fin dalla metà del secolo XIX. Marx ed Engels seguirono per decenni sistematicamente la connessione dell’opportunismo in seno al movimento operaio con le peculiarità imperialistiche del capitalismo inglese. Per esempio Engels scriveva a Marx il 7 ottobre 1858 (ot-to-cen-to):
«Il proletariato inglese si imborghesisce sempre più, sicché questa, che è la più borghese di tutte le nazioni, sembra infine voler arrivare a possedere un’aristocrazia borghese e un proletariato borghese, accanto alla borghesia. Del resto ciò è in una certa guisa spiegabile per una nazione che sfrutta tutto il mondo».
Circa un quarto di secolo più tardi, in una lettera dell’11 agosto 1881, egli parla di quelle spregevolissime Trade Unions inglesi «che si fanno guidare da uomini venduti alla borghesia o almeno da essa pagati». E in una lettera a Kautsky del 12 settembre 1882 scriveva ancora:
«Ella mi domandava che cosa pensino i lavoratori inglesi della politica coloniale. Ebbene, precisamente lo stesso che pensano della politica in generale. In realtà non esiste qui alcun partito di lavoratori, ma solo conservatori e liberali radicali, e gli operai godono del monopolio commerciale e coloniale dell’Inghilterra sul mondo».
E lo stesso dice Engels nella prefazione alla seconda edizione della «Situazione delle classi lavoratrici in Inghilterra», nel 1892.

Qui sono svelati chiaramente cause ed effetti. Cause:
1) sfruttamento di tutto il mondo per opera del paese in questione;
2) sua posizione di monopolio sul mercato mondiale;
3) suo monopolio coloniale.
Effetti:
1) imborghesimento di una parte del proletariato metropolitano;
2) una parte del proletariato si fa guidare da capi che sono comprati o almeno pagati dalla borghesia.

Par di vedere la espressione di consumato fastidio dei grandi politici di oggi di fronte a questa mania di ricamare su vecchie citazioni pescate negli scritti di Marx ed Engels, mentre oggi essi hanno approfondito esperito e navigato ben altro nelle acque della «vita» politica.

Ma nemmeno il merito di aver pescato è nostro. La nostra erudizione non vale molto più della nostra attitudine al moderno politicare, e si riduce a quella del pretonzolo che dinanzi ad ogni quesito trae di tasca il breviario. Era per l’occasione un libercolo: l’Imperialismo di Lenin, e non abbiamo altro fatto che copiare, dopo la domanda: Così?, fino a tutto il capoverso che tanto stupendamente ricapitola cause ed effetti dell’imperialismo.

Ciò ci occorreva da un lato per confutare la pretesa di Truman che i suoi piani di mondiale controllo «nulla abbiano a che vedere col vecchio imperialismo» e dall’altro, dialettica aiutaci tu, la non meno assurda pretesa di Stalin e dei suoi che il loro piano di agitazione demonazionalpopolare «nulla abbia a che vedere col vecchio opportunismo».

Non siamo noi che abbiamo eretto a Lenin una tomba faraonica, e nemmeno noi che abbiamo chiesto agli eredi di Marx le sue spoglie per portare anche quelle al Cremlino. Né l’uno né l’altro avrebbero mai sognato che, lottando per l’abolizione della proprietà sul lavoro dell’uomo, come Cristo aveva lottato per abolire la proprietà sul corpo dell’uomo vivo, sarebbero stati amministrati coi canoni giuridici della proprietà sul cadavere. Senza avere nemmeno, i due primi rispetto al terzo, il privilegio di portarlo via dal sepolcro a scanso di profanazione di farisei.

Pensando tuttavia ad un Marx, a un Engels, a un Lenin vivi tuttora, ci pare di poter sicuramente indurre che ravviserebbero nella politica americana di oggi i caratteri stessi di quella inglese di allora, e riconfermerebbero il metodo di lotta rivoluzionaria del partito di classe contro la borghesia indigena, concludendo anche oggi che i fenomeni di pianificazione mondiale capitalistica – a cui non si deve, come faceva l’opportunista Kautsky, contrapporre richieste reazionarie di libertà di commercio e di concorrenza, di pace e di democrazia (cap. IX di Lenin) – stanno a provare che l’involucro dei rapporti di proprietà e di economia privata va in putrefazione, ma può durare in putrefazione per un periodo relativamente lungo (che finirà tuttavia male se si fa troppo aspettare la puntura del bottone opportunista).

Con queste testuali parole chiudeva Lenin al 26 aprile 1917 il suo scritto. La Rivoluzione di ottobre punse il bubbone. Rimasero nel mondo i germi, ed esso si è formato di nuovo, incombendo sul coperchio di quella tomba monumentale.

Oggi

Nel suo messaggio di Capodanno il presidente degli Stati Uniti ha tentato di impiantare la prospettiva caratteristica della nuova forma dell’imperialismo in cifre che pretendono di contenere un piano di mezzo secolo. Chi non fa piani oggi? Gli stessi sostenitori del classico liberalismo economico, che si fidava sul gioco spontaneo di forze e di leggi sufficiente ad avviare tutto per il meglio, basta che si lasciasse produrre commerciare e speculare chi voleva, sostengono capziosamente che la stessa massaia in atto di fare la quotidiana spesa per il pranzo regola le sue decisioni secondo un piano economico…

Comunque Truman studia la ricetta ed il bill di un pranzo che di certo non consumerà di persona, nell’anno duemila. Il capitalismo diviene ogni giorno di più un volgare scimmiottare del socialismo ed ecco che lo vediamo rubare il titolo del famoso romanzo utopistico del Bellamy…

Facciamo come gli astronomi che ipotizzano di essere su un apparecchio dotato di velocità superiore a quella della luce, e cominciamo dal duemila tornando indietro a questo vile 1950. Truman ci assicura che gli Stati Uniti avranno allora un reddito nazionale annuo di un trilione di dollari, e che attraverso la pace – dice alcune volte – o il controllo del mondo garantito da formidabili armamenti – dice altre volte – avranno triplicato il reddito di ciascuna famiglia rispetto a quello di oggi.

Oggi la Confederazione americana conta quasi 150 milioni di abitanti; dobbiamo pensare che secondo Truman saranno tra mezzo secolo almeno 200 milioni. Staranno sempre larghi: in 26 ogni chilometro quadrato, laddove in Italia siamo già oggi in 150. Il reddito pro capite, cioè per ogni abitante, sarà di cinquemila dollari annui, ossia 96 dollari per settimana, equivalenti circa a 64 mila lire nostre di oggi: quasi diecimila lire al giorno.

Poiché con un simile standard di prosperità il signor Truman ci dice che il gettito presente sarà triplicato, oggi ogni americano dispone di 32 dollari per settimana, ossia 21 mila lire circa, appena tremila al giorno. Il reddito annuo medio è di 1670 dollari ossia un milione e rotti di lire e il reddito nazionale 250 miliardi di dollari. Deve essere così, dicono le statistiche.

Un tale reddito è circa otto volte quello italiano che in base alle cifre date da Pella, cui avemmo occasione di ricorrere tempo addietro, si limita a 225 dollari annui, ossia 4,35 settimanali per abitante; in lire: 150 000 e 2900, appena 400 lirette al dì…

Il senso suggestivo del «nuovo imperialismo» sta nell’aumento del tenore di vita del paese imperiale per questa via: investimento all’estero ultraredditizio dei capitali che trae dai suoi accantonamenti; programma di intensificazione e miglioramento dello standard di vita nei paesi sottomessi. Le cifre «medie» servono magnificamente a questo scopo.

Infatti Truman ha due giorni dopo dettagliato un piano economico di meno ampio respiro, di cinque anni appena. Sostenendo che, dopo una breve depressione tra il 1948 e il 1949, l’economia interna americana è già in forte ripresa, egli considera possibile un risparmio sul reddito nazionale di 300 miliardi di dollari in cinque anni, precisamente per i famosi investimenti privati all’estero che lo Stato garantirà dai «rischi peculiari ad essi». Dunque 60 miliardi annui, un 40 % del gettito odierno che gli americani non consumerebbero, per poterlo investire: tanto consumeranno sempre cinque volte più di noi. Tuttavia già nei cinque anni il reddito sarà aumentato, prevedendo con sicurezza il presidente di elevarlo di almeno mille dollari annui per famiglia, assicurando al tempo stesso 64 milioni di jobs, ossia di posti, di impieghi, di occupazioni lavorative retribuite di ogni genere. Libertà eguaglianza fraternità e job, ecco i principii della perfetta moderna democrazia. Ed allora vuol dire che, se chiamiamo famiglia il gruppo di abitanti per ogni job, si deve salire da 4000 a 5000 dollari annui per famiglia, ovvero da 80 a 100 dollari alla settimana. Il capofamiglia occupato guadagnerà in media diecimilalire al giorno.

Che cosa accade nel mondo che attornia l’America trumaniana e dai suoi piani dipende? Compulsiamo un’altra statistica di fonte attendibile che confronta il guadagno settimanale di un lavoratore in tutti i paesi del mondo, ridotto in dollari americani. Al vertice sta la Confederazione americana con 27,62, alla base la Cina, con appena 2,40. Sono cifre di guadagno del lavoratore occupato, e quindi inferiori al guadagno medio di tutti i capifamiglia che hanno un job. Accade così che per l’Italia, paese povero, questa statistica dà dollari 6,86, ossia più del reddito medio per abitante, molti essendo gli abitanti senza reddito, pochi quelli con redditi alti – per l’America dà invece meno dei già riportati 32 dollari settimanali per abitante.

Questa scala impressionante non costringe certo il capitalismo pianificatore ad ammettere che per alzare lo standard di vita in America e in qualche altro paese associato al privilegio (nella scala attuale Canada, Nuova Zelanda… precedono la stessa signora di un giorno, la Gran Bretagna) occorra ribattere ancora le già basse medie dei paesi di Oriente e dell’Occidente Europeo, arricchire cioè affamando il mondo. All’opposto: esportando insieme ai capitali la alta tecnica scientifica, tenuta su con dispendiosi istituti del Capitale statunitense, si vuole esaltare con la produzione il consumo estero, la stessa esportazione americana che i civilizzati potranno pagare in dollari Marshall. Il Piano ha per suo scopo di arrivare nei paesi «assistiti» – nell’Italia del Sud, zona arretrata, l’assistito è quello che ha in sogno i numeri del lotto… – ad un reddito pro capite annuo di 350 dollari; ossia dollari 6,60 circa per settimana ed abitante, il che esige nei paesi non ricchissimi una resa del lavoro salariato di almeno 9 dollari settimanali al capofamiglia occupato. In Italia non ci siamo, ed infatti contro i 550 del Piano Truman, il reddito pro capite sappiamo essere di 225 dollari soli all’anno…

Non solo il piano mondiale modernissimo non ammette di voler affamare, ma dobbiamo avere il coraggio di dire di più. Per la dimostrazione che il sistema capitalistico deve cadere, per la rivendicazione del suo abbattimento, per il diritto, se così vogliamo esprimerci, di denunziarlo infame, non è condizione necessaria la prova che sopravvivendo abbasserà il tenore medio di vita mondiale. Il capitalismo deve cedere a forme di più alta resa economica oltre che per le sue infinite conseguenze di oppressione, distruzione e di strage, per la sua impossibilità ad «avvicinare gli estremi delle medie» non solo tra metropoli e paesi coloniali e vassalli, tra zone progredite industriali e zone arretrate agrarie o di agricoltura primordiale, ma soprattutto fra strato e strato sociale dello stesso paese, compreso quello dove leva la sua bandiera negriera il capitalismo più possente ed imperiale.

La ricchissima e prosperosa America, dall’alto dei suoi 1670 dollari di tenore di vita, ne promette 350 ai paesi che di gradino in gradino scendono ai forse 50 della Cina rurale. Ma già le statistiche degli Stati della Confederazione danno un giudizio sulla vantata e progressiva prosperità. La media dei quattro Stati meno industriali scende a 150 dollari: nel Tennessee sono 137. Stanno peggio che in Italia. Ma qualche sergente del Tennessee sarà mandato a colonizzare la Calabria, qualcuno calabrese la Somalia… Vecchia storia.

Ben altro si vedrebbe confrontando le statistiche, se le cifre borghesi consentissero tale esame, del tenore di vita delle varie classi sociali. Vi sarà certo uno scarto più grande tra i re del capitale di Nuova York e i lavoratori del sottosuolo edilizio (per lo più italiani) che tra il primo farmer e l’ultimo agricolo del Tennessee. Non per niente nel programma di Truman rientrano misure per sostenere il prezzo dei prodotti della terra e non affamare i farmers dell’Ovest… a spese si capisce dei salariati dell’industria.

Lenin nel suo testo già illustra a fondo uno dei caratteri essenziali dell’imperialismo nella esportazione dei capitali, nell’investimento estero. Egli mostra come nell’anno 1917 i dati più suggestivi venissero da due paesi: Germania e Stati Uniti, che i suoi falsi scolari hanno dipinto come poli opposti del mondo, barattando il marxismo colle dottrinette borghesi.

I rivoluzionari marxisti ai piani di esportazione del capitalismo, della sua tecnica e della sua economia dai paesi più avanzati contrappongono dunque da Marx in poi la stessa forza, lotta di classe interna, distruzione del capitalismo a casa sua.

La scala statistica che abbiamo adoperata conduce ad un rilievo impressionante. Se la tagliamo in due all’altezza della Cecoslovacchia, tutti i paesi al di sopra sono con Truman, tutti quelli al di sotto con Stalin. Due sole eccezioni, che possono confortare le chances di carriera dei Nosaka[1] e dei Togliatti: Giappone, Italia!

La cortina di ferro, vista dalla parte di Mosca, è una cortina d’oro.

La media dei paesi superiori è circa tripla di quella dei paesi inferiori. Sicché, anche se fosse vero che un terzo della popolazione del mondo sta già dal lato di Stalin, lo stesso non avrebbe che un nono delle forze economiche. I margini che si possono strappare al consumo di pace per una economia di armamento e di guerra, oggi che non gli uomini combattono ma le macchine, e quelli che combattono tendono a divenire tutti dei professionisti, sono in un rapporto ancora più disperato.

Oltre quindi che essere traditrice della linea rivoluzionaria e di classe, la politica di una guerra su fronti nazionali, di una guerra di paesi poveri contro paesi ricchi – ed era in fondo questa la politica Hitler-Mussolini – è politica di disfatta. E la politica migliore che il piano Truman possa desiderare: uccide dai due lati della cortina la guerra di classe, assicura la finale vittoria mondiale alle armi «occidentali».

Sarà inutile calcolare le conseguenze preterintenzionali di una vittoria di Stalin, come fu inutile calcolare quelle di una vittoria di Hitler. Il trono massimo del capitalismo non tremerà sulle sue basi, aprendo una possibile via al cataclisma rivoluzionario, che, come Lenin vide, abbatta imperialisti ed opportunisti, vinti e vincitori, nella stessa rovina.

Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Sanzō Nosaka (1892–1993), fondatore del Partito Comunista Giapponese. [⤒]


Source: «Battaglia Comunista», n.3 del 1950

[top] [home] [mail] [search]