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TENDENZE SOCIALISTE E QUESTIONE DEL POTERE


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Tendenze socialiste e questione del potere
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Sul filo del tempo

Tendenze socialiste e questione del potere

Ieri

Tutta la stampa di «informazione» e quella dei partiti dell’ordine ha in tutti i tempi manifestato il massimo interesse per i congressi dei partiti proletari, le tendenze le scissioni le frazioni le unificazioni che si succedono nel campo del socialismo. Si direbbe che la classe dominante, sotto la ironia e talvolta l’ostentato compiacimento per questa mutabilità e apparente labilità del movimento operaio, sente che si tratta di un processo importante in cui si riflette la elaborazione e la preparazione di eventi sociali futuri, cerca di capire di scegliere di intervenire nell’interesse della difesa del regime.

In questa competizione hanno finito nei vari periodi col fare il loro vero e proprio allenamento molti degli uomini politici che sono poi stati al servizio diretto e aperto del capitalismo. La politica di questo da quando si liberò per sempre dal timore di ritorni e restaurazioni feudali consiste essenzialmente nel seguire lo sviluppo del potenziale di classe dei lavoratori che opprime e l’organizzarsi dei loro mezzi di azione e di attacco.

I contrasti di metodi da adottare nell’azione di classe hanno avuto storiche vicende sia sul piano internazionale che nei partiti delle singole nazioni. Nel campo nostro come in quello nemico si è sempre discusso se le divisioni tra gli aggruppamenti discordi sulla via da seguire avevano segnato una perdita di forza unitaria o avevano costituito un passo avanti verso migliore efficienza. Ciò fin dalla classica lotta tra Marx e Bakunin che divise la Prima Internazionale tra anarchici o libertari e socialisti che furono detti autoritari. Le correnti destre dei decenni successivi e della Seconda Internazionale equivocarono volutamente sul termine confondendolo con quello di legalitari, ossia fautori della attuazione del socialismo traverso una penetrazione negli organi rappresentativi e amministrativi borghesi. Si trattò invece di contrapporre alla ingenua concezione anarchica che vede nella rivoluzione sociale, in fondo, una ulteriore conquista personale dell’individuo, cui la rivoluzione borghese avrebbe già dato la libertà giuridica, trattandosi ora di procacciarsi sia pure con l’uso della forza quella economica, la giusta impostazione che vede il soggetto della conquista nella classe e non nella persona, classe che è schiava sotto il regime capitalistico non meno che sotto quelli anteriori e che per abbatterlo non ha bisogno di conati individuali, ma di un organismo politico e di combattimento e dello stesso esercizio del potere, e quindi di una autorità rivoluzionaria costituita per schiacciare le resistenze della conservazione capitalistica.

Una lunga strada di contese teoriche e di dissolvimenti e nuovi inquadramenti organizzativi, nei vari paesi e nell’Internazionale, in effetti una lunga e difficile scuola a cui la storia tiene la classe rivoluzionaria, fino alla rottura della Seconda Internazionale colla condanna del metodo socialdemocratico, che voleva condurre alla autorità proletaria cogli stessi meccanismi in cui si amministra quella borghese – una lunga strada che è ben lungi da essere stata tutta percorsa. Le lezioni di questo sanguinoso e tragico sviluppo sono sconfitte e vittorie, la Comune di Parigi con le possenti analisi che Marx ne fece, la Rivoluzione Russa e le rivendicazioni del metodo dittatoriale e terroristico proclamate da Lenin e Trotzky contro la polemica dei rinnegati, la posteriore involuzione del potere operaio russo e il ripiegamento incredibile della Terza Internazionale a nuove alleanze e collaborazioni vergognose con le forze del capitalismo.

Oggi

Da poco è ricorso l’anniversario del Congresso di Livorno in cui si fondava nel 1921 il Partito Comunista d’Italia e l’attenzione negli ultimi giorni si è portata sulle vicende del Partito Socialista dei lavoratori e sulle tre tendenze che vi si sarebbero manifestate.

In questo campo, o in quello fieramente avverso dei due partiti alleati stalineggianti, è facile vedere che nulla si elabora di utile e nulla di fecondo può uscire per il rinvigorimento della classe operaia italiana, da contese del genere o da nuovi raggruppamenti e separazioni.

I congressi non mostrano più di sentire nemmeno confusamente i grandi problemi di indirizzo di una classe avversa all’ordine istituito. Essi non cercano di risolvere che situazioni contingenti e non discutono che in funzione della stretta attualità. La cerchia dei gerarchi che è poi quella ridotta in cui si esaurisce tutta la vita di questi organismi – sebbene da tutte le sponde imbottiscano la testa di democrazia di masse di popolo cosciente e di pubblica opinione – non si lascia impegnare a direttive che ne limitino la manovra e le vietino per mutati venti di mutare veste e linguaggio: il comportamento di tutti costoro si è ormai riportato alla prassi caratteristica degli agenti borghesi e potrebbero davvero affasciarsi tutti in un sindacato professionale di servitori politici del capitale pronti a cambiare sempre la canzone che cantano, non il mestiere.

Questo stile è difeso apertamente in tutti e tre o quattro partiti nei clan di testa, pronti tutti questi ometti a deridere con compassione chi volesse, povero fesso rimasto indietro trent’anni, «fare questioni di principio davanti alle masse».

Prendiamo ancora per un momento questo curioso PSLI. Doveva decidere se restare o meno nel governo. La decisione interessa poco perché fatti più grandi di loro potrebbero cacciarli tutti in un governo insieme a preti e stalinisti o metterli fuori a pedate. Ma è interessante vedere che nessuna delle pretese «tendenze» aveva una strada da proporre.

La destra naturalmente rivendica questo metodo in pieno per attuare riforme utili ai pretesi operai elettori del partito.

Questa destra probabilmente nel suo socialdemocratismo condanna la violenza e la dittatura proletaria. La sinistra invece le ammette a modo suo mentre circa la partecipazione ministeriale voleva che oggi Saragat si dimettesse, ma non ha proposto al partito il rifiuto del possibilismo, altrimenti ne avrebbe dovuto uscire.

Ma tanto per conchiudere facciamo una piccola ipotesi, che sorga la possibilità di un regime totalitario di un partito borghese, di fascisti, di monarchici, di preti o di altro non fa conto. Molto probabilmente echeggerebbe unanime il grido fatidico (quello che ha tutto fregato): questo poi no!

La destra diventerebbe barricadiera e Saragat probabilmente per l’illegalismo e l’insurrezione, come Turati alla minaccia di una guerra triplicista nel 1914.

La sinistra dittatoriale e massimalista, per maturo leninismo-trotskismo di ultima maniera non solo ammetterebbe il gran fronte antifascista ma tornerebbe a trovare rettilineo che sbocco della azione fosse ancora una volta un governo di grande coalizione «nazionale», «popolare».

Destra e sinistra poi, pure sapendo che gli stalinisti possono sempre su un ordine tipo 1940 bloccare con un Hitler di domani, li invocherebbero fratelli tanto nelle milizie partigiane che nel ministero.

Ma nemmeno tutto questo è sicuro. È infatti accaduto su per giù dal 1922 al 1945, ma appunto questi politiconi di oggi sono tutti distinti dal non essere impegnati da principii, da programmi o da voti congressuali a comportarsi ancora una volta così. Probabilmente un grande maturo totalitarismo li metterà un giorno tutti d’accordo dando un buon posto ai più «elastici» di ogni sfumatura.

Essi sono sempre in attesa di un imprevisto «fantasma», magari quello di Mussolini, cui lanciare il classico, demagogico, unifrontistico questo poi no!

I socialisti e rivoluzionari conseguenti credevano invece che questo grido chi entrava nelle file del proletariato lo lanciasse una sola volta e per sempre al regime del Capitale.

Più fetente di questo, per noi, non c’è nulla. Per noi, della «class de asen».


Source: Da «Battaglia Comunista» № 5 del 2–9 febbraio 1949

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